Ad un mese dalla scomparsa di un gigante del pensiero, si ricorda la sua lezione che è pari a quella di Martin Heidegger.
Chi è stato per noi Emanuele Severino?
E’ difficile per coloro che, come me, l’hanno avuto come maestro, non farsi prendere dalla commozione e parlare o scrivere serenamente, perché, con lui, se n’è andata una parte del nostro mondo e della nostra vita, culturale, intellettuale ed umana. Occorre ricordare non solamente la sua fierezza di pensiero, fierezza che aveva avuto soprattutto il senso di dignità, ma anche l’insegnamento migliore che ha lasciato in eredità: il filosofo, in particolare, e l’intellettuale, in generale, svolgono un ruolo di tipo sociale e pedagogico. E non si può, inoltre, fare a meno di rievocare il confronto operato con un altro che è stato tra i maggiori pensatori del Novecento: Martin Heidegger, confronto che ha catturato la mia attenzione, sin da quando ero adolescente e studioso di entrambi, anche se è stato Severino ad introdurmi nella dimensione della filosofia e soprattutto in quella della filosofia greca. Ed io intuivo, seppure con volontà, passione e curiosità “critica” di conoscere, cogliendo il significato dell’orizzonte che il pensiero possa aprire, significato che il tempo e l’esperienza culturale hanno reso sempre più cristallino, intuivo – dicevo – che dietro ogni pagina dei suoi saggi, dietro il suo eloquio forbito, dietro le sue argomentazioni logiche nell’esporre i concetti filosofici vi erano lo studio e la ricerca, ripetuti e spasmodici. Quel che ho appreso, sin da allora, era che l’aspetto più duro e tuttavia necessario del lavoro intellettuale è: studiare, studiare e ancora studiare. Severino era persona di profonda cultura classica ed altrettanto profondo sapere umano; egli è riuscito a coniugare, con felice simbiosi, l’opera di docente e quella di divulgatore, procedendo, a testa alta, lungo il suo percorso di studioso e di uomo libero. Gli Italiani devono essere fieri di aver espresso uno tra i più grandi pensatori di questo tempo, come ha asserito un altro suo allievo, Umberto Galimberti. E, nel suo ricordo, gli intellettuali devono sentirsi fieri ed orgogliosi di essere tali. Caro professore, le sia lieve la terra.
La lezione di Severino, autore di decine di opere, tradotte in molte lingue, è pari – come detto – a quella di Heidegger: “Si tratta di una relazione inconciliabile, di un aut-aut”, ha affermato Massimo Cacciari. E quando cesseranno le chiacchiere e le confusioni alla moda, quando potrà studiarsi, la nostra epoca, da una “buona” distanza, allora questa decisione risulterà il problema cruciale della nostra filosofia, e non solo. Heidegger – prosegue Cacciari – coglie la debolezza dell’antiplatonismo idealistico e nietzschiano, per svilupparlo in un anti-parmenidismo. E Severino ha rappresentato l’altro polo. In lui, non è vero che gli uomini e le cose – gli “essenti” – passano dall’essere al nulla, ma tutto c’è da e per sempre. Ed infatti, il nulla è proprio nulla! Se si prova a disegnarlo, si disegnerebbe comunque qualcosa, qualcosa che si è deciso di chiamare nulla, ma che non è il nulla: il nulla non esiste, ma esistono soltanto le cose che ci sono. Severino ci dice che il passato e il futuro sono “semplicemente” spariti, cioè usciti dall’apparire che è la luce la quale illumina il presente, unico luogo in cui si può vivere. E’ come entrare in una stanza buia e, uscendo, chiedersi: “cosa è apparso là dentro?”. “Nulla!”. Ma se si rientra nella stanza e qualcuno accende la luce, uscendo, alla stessa domanda, si farà l’elenco delle cose che sono apparse.
Eppure, la stanza è la stessa e le cose sono state sempre là, anche al buio. L’apparire, quindi, è la luce che permette di vedere ciò che illumina, e le cose fuori da quella luce sono al buio, ma ci sono. Pertanto, il nulla non esiste, e le cose, poiché esistono sempre, sono “eterne”. Si pensi alla bobina di un film: ed infatti, quando si guarda un film, si può vedere solo l’immagine che appare, ma quel che è successo o quel che succederà è sempre là, benché non lo si veda, lo era pure prima che si guardasse il film o lo sarà anche dopo. Proviamo a pensare il nulla: ci riusciamo? Per Severino, dunque, che gli “essenti” siano eterni è la “verità”, mentre l’ “errore” o la “follia” dell’Occidente sono quelli di pensare al divenire delle cose, cioè al loro uscire dal nulla e ritornarvi.
Egli osserva che il “destino” della verità è l’apparire dell’eternità degli essenti, tanto che il loro venire e il loro andare (la loro nascita e la loro morte) sono la comparsa e la scomparsa degli eterni. Ecco perché è stato definito fondatore del neo-parmenidismo. Anche la domanda filosofica di Heidegger riguarda il senso dell’essere dell’uomo (“ente”). Ma, mentre, per il pensatore tedesco, nel suo concetto di “differenza ontologica”, l’essere non è un ente fra gli enti, rappresentando piuttosto l’apparire ontologico degli enti, il transcendens rispetto all’ente, per Severino, la totalità dell’essere è costituita dalla totalità degli enti, al punto che la vera
differenza ontologica è quella che si instaura tra l’essere-ente diveniente e quello immutabile.
L’essere, che appare e scompare, non è lo stesso essere immutabile, ma è anch’esso eterno: entrambi esistono, ma in differenti dimensioni.
Ecco le due polarità della filosofia attuale: Heidegger e Severino che superano sia la “linea” nietzschiana-heideggeriana-ermeneutica, sia l’opposizione tra questa e quella analitica nel pensiero contemporaneo.
Aver compreso la lezione severiniana vuol dire non semplicemente esplorare i contorni e gli effetti di quella polarità, ma affrontarla per un ri-inizio del pensiero filosofico, in quanto “giocare con le idee permette di allargare i propri orizzonti, diventare più tolleranti, più capaci di comprendere, e quindi di vivere meglio” (Galimberti).
parole di Antonio Calicchio
scatto tratto dal web