Sono, ormai, trascorsi 30 anni da quando, a New York, l’Assemblea Generale dell’ONU decide di adottare, il 20 novembre 1989, la Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, ratificata, in Italia, con L. n. 176/1991. Oggi, è il trattato col maggior numero di ratifiche al mondo, rappresentando una pietra miliare per i bambini e per i loro diritti. Per festeggiare questa ricorrenza e questo traguardo, l’Unicef ha organizzato, in tutto il mondo, convegni ed iniziative dal titolo Una storia bellissima: 30 anni dalla parte dei bambini il giorno 20 novembre scorso. Detta ricorrenza, offre l’occasione per ripercorrere le tappe che hanno condotto ad un significativo traguardo per i fanciulli, finalmente garantiti e riconosciuti nei loro eguali diritti, alla vita, alla pace, alla giustizia e allo sviluppo umano. Ed infatti, la vita del fanciullo, nel corso dei secoli, ha avuto poco o alcun significato per il mondo degli adulti. Privo di ragione e di parola, il minore era relegato in un limbo di silenzio e di “non diritti”.
Da un punto di vista storico, il percorso che ha portato alla Convenzione è stato lungo ed impervio. La prima Carta dei Diritti del bambino fu, nel 1923, redatta da Eglantyne Jebb, successivamente fondatrice di Save the Children. Un anno più tardi, venne stilata la Dichiarazione di Ginevra, testo ispiratore della Dichiarazione dei diritti del fanciullo, adottata dall’ONU, il 20 novembre 1959, i cui precetti confluirono nell’attuale Convenzione.
Ad oggi, sono 196 i Paesi che hanno deciso di adottare la Convenzione e di rispettarne valori, principi e norme poiché gli interessi dei fanciulli nella vita della comunità sono prioritari rispetto agli altri, onde vederli crescere adulti responsabili ed equilibrati.
Nelle varie manifestazioni, si è evidenziato anche il fenomeno del bullismo che connota i comportamenti dei ragazzi, rilevando come esso sia, da un lato, sempre esistito e, dall’altro, abbia, oggi, paurosamente oltrepassato ogni limite, al punto da creare angoscia nei genitori, impotenza negli insegnanti, disorientamento nella società. I motivi vanno cercati nell’eredità del passato, nella cultura del presente e, tanto più, nell’incertezza del futuro.
Quella di oggi è stata definita la “generazione del nichilismo attivo”.
Ma che cos’è il nichilismo?
Nietzsche, pensatore tedesco della seconda metà dell’Ottocento, lo definisce sulla base di 3 elementi principali:
- manca lo scopo,
- manca la risposta al perché,
- i valori si svalutano.
Scopo, nella sua etimologia greca, indica il guardare, guardare non tanto un panorama, quanto un bersaglio preciso dell’osservazione, quello che si focalizza, ad es., col telescopio, con l’endoscopio.
Manca la risposta al perché.
Tutti i valori si svalutano.
Ma cosa sono i valori? I valori non sono altro che dei coefficienti sociali che regolano la convivenza di una comunità. Oggi, la questione non riguarda la caduta o il declino dei valori, no! In quanto i valori sono mutevoli, come dimostra tutta la storia della nostra civiltà (prima della Rivoluzione francese, ad es., vigevano i valori dell’assolutismo; dopo la Rivoluzione francese si affermano e si diffondono i valori della liberà, dell’uguaglianza, della giustizia sociale, della democrazia). Ma la questione riguarda la mancanza di scopo. E lo scopo è collegato al futuro, il quale futuro non è più una promessa per i giovani. Non arrivo a dire che sia divenuto una minaccia, no! Ma sicuramente il futuro non è più prevedibile. E se il futuro non è una promessa, allora esso non retroagisce alla fase della costruzione delle motivazioni. Pertanto, il giovane si chiede: perché? Perché debbo studiare, perché debbo impegnarmi, ecc., perché?
Nell’ambito di un siffatto contesto, e considerato che i ragazzi sono una forza della natura, pur coi problemi e le trasformazioni del corpo, coi terribili interrogativi di ordine esistenziale, i ragazzi – dicevo – debbono essere visti non dal momento della giovinezza, ma fin da quello della nascita. Nei primi 6 anni di vita – ci dice Freud, il padre della psicoanalisi – si formano le modalità cognitive (cioè il modo di conoscere il mondo, secondo una modalità di ordine logico, razionale, estetico, metafisico, teologico) e le modalità emotive (cioè il modo di sentire gli eventi del mondo, il modo della risonanza emotiva di essi dentro ciascuno di noi).
Ecco, queste mappe – cognitive ed emotive – si formano nei primi anni di vita.
E, oggi, come si formano? Questo costituisce un punto cruciale: si formano casualmente. Il padre e la madre lavorano, tornano a casa tardi, il bambino è stato con la baby sitter, davanti alla televisione o allo smartphone.
E, quando si torna a casa, manca il tempo di capire quali siano le mappe emotive del bambino. Bambino che, ad es., invita la mamma e il papà a guardare il disegno che ha realizzato a scuola, mentre i genitori cosa gli rispondono? “Lo guardiamo domani”, e guardarlo domani, significa “mai”.
L’identità personale non è un fatto naturale; ma è un fatto sociale, culturale, cioè è il prodotto del riconoscimento che gli altri ci danno. Il papà o la maestra che continuano a dire al bambino “sei cretino o sei bravo”, fanno crescere, in lui, l’identità, la consapevolezza di essere cretino o di essere bravo. L’identità, quindi – si ricordi – è il prodotto dei riconoscimenti. Se i genitori non hanno tempo di vedere ciò che fanno i figli, allora i figli crescono come possono: bambini soli, con cartoni animati e smartphone. Nulla di male! Ma si sappia che, in queste circostanze, le modalità emotive si formano a caso, ossia come capita.
Oggi, le neuroscienze – diversamente da quanto sosteneva Freud – ci comunicano che le mappe cognitive ed emotive si formano non nei primi 6 anni di vita, bensì nei primi 3. Tuttavia, i bambini non sanno di progredire, ma sono i genitori a vederli progredire.
E si badi bene: le parole dei genitori sono seguite dai figli finché questi hanno 12-13 anni; poi, in conseguenza della scoperta sessuale, le parole non servono più. O si parla prima, quindi, molto prima, oppure tutto è perduto, nel senso che i ragazzi non seguono più le parole. Occorre parlare molto prima, se si vuole tenere la porta aperta. La parola è fondamentale nei primi anni. I bambini – come è noto – fanno domande che sono dei veri e propri interrogativi di tipo filosofico, coi loro continui “perché?”, i quali perché meritano, però, sempre una risposta, non una risata, meritano sempre considerazione.
Per quanto riguarda i bambini delle elementari, va sottolineato che, se si commettono errori nell’infanzia, non ci si può allora meravigliare di quel che succede dopo. Pensate allo scontro che spesso i genitori hanno con le maestre! Quando i bambini vanno a scuola, sviluppano altri binari di affettività. E quando i genitori parlano male delle maestre, stanno incidendo negativamente sulla sfera dell’affettività del bambino. I genitori debbono sempre stare dalla parte delle maestre. Le quali svolgono un lavoro faticosissimo perché non solo insegnano, ma accolgono anche i pianti dei loro alunni, le frustrazioni, le delusioni, le gioie, i conflitti, la rabbia. Bisognerebbe assegnare alle maestre lo stipendio dei professori universitari!
E, poi, giunge l’adolescenza in cui si scopre che certe parti del corpo servono ad altro che non sia esclusivamente la minzione, e cioè il piacere e la procreazione. Ciò coinvolge pesantemente la psiche delle ragazze, in concomitanza con l’arrivo delle mestruazioni. L’adolescenza è una fase critica, e crisi, sul piano dell’etimologia in greco, significa “giudicare”.
Ma come si educa tutta la formazione emotiva e sentimentale di questi ragazzi? Platone asseriva che “la mente si apre quando si apre il cuore”. L’apprendimento avviene per fascinazione, per mimesi. Occorrono insegnanti affascinanti, carismatici. Tutti noi studiavamo molto le materie dei professori che ci affascinavano. Come mai? Perché i professori non debbono divenire amici dei propri studenti; ma, questo, rappresenta un errore che compiono pure i genitori, purtroppo. I genitori non debbono essere amici dei propri figli, ma debbono essere genitori!
Non si trascuri un ulteriore dato oggettivo che concerne la formazione delle classi, le quali classi debbono essere composte di 12-15 studenti. Con classi di 30 alunni, si è già deciso scientemente che il processo educativo non può accadere.
Educare significa far evolvere la parte emotiva, sentimentale; significa individuare le parti diverse dell’intelligenza, da quella matematica a quella musicale, a quella corporea, nel senso che bisogna seguire i ragazzi e capire il loro sviluppo.
E, se i ragazzi e le ragazze, rimangono a livello delle pulsioni – che è quello primario di crescita – allora si avrà il bullo. Quando una scuola ha un bullo, quale provvedimento adotta? La sospensione. Ed invece, lo dovrebbe tenere il doppio a scuola, per portarlo a un livello più alto, vale a dire da quello delle pulsioni al livello delle emozioni. Emozione vuol dire scoprire quale risonanza emotiva hanno, dentro di noi, gli accadimenti del mondo. Sempre più spesso, non si sente la differenza tra corteggiare e stuprare una ragazza. In questo caso, vuol dire che non è arrivata ancora la fase emozionale. E pensiamo, ad es., ai ragazzi che lanciano sassi dal cavalcavia i quali ci dicono che è un gioco. In essi, non si rileva la differenza tra bene e male. La loro psiche non registra più la differenza tra ciò che è grave e ciò che non lo è.
E i genitori debbono rendersi conto che, se circondano ed inondano i bambini di giocattoli, estinguono allora in essi il desiderio. Il bambino non desidera più, ciò che non ha perché ha già tutto. Se l’intervallo tra sé e il giocattolo – tra il soggetto e l’oggetto – non esiste più, allora vuol dire che si estingue il desiderio, e la psiche diviene apatica. La psicoapatia, è sempre in agguato. Il termine desiderio deriva dal latino: de-sidus, cioè senza stella. Desiderio è mancanza, nel senso che si desidera ciò che non si ha. Se qualcuno desidera, desidera cambiare il mondo. Quando vi trovate dinanzi una società che non desidera più cambiare il mondo, allora significa che i bambini, i ragazzi, i giovani hanno smarrito il desiderio.
I genitori appaiono sempre più preoccupati che i bambini non si annoino, che si divertano sempre, che siano occupati e iperstimolati. Ma la noia è fondamentale. I bambini che si annoiano non sono un male perché la noia è semmai la precondizione della crescita. Ed invece, i bambini sono sottoposti a una serie impressionante di stimoli: danza, calcio, inglese, teatro, ecc.: non ce la si fa, non ce la si può fare! Quando si hanno iperstimoli, allora avviene che o si va in angoscia oppure si abbassa la soglia degli stimoli, divenendo psicoapatici. Ed infatti, per non esporsi all’angoscia, i bambini si autolimitano nella percezione degli eventi del mondo.
Quanto ai sentimenti – che rappresentano la terza fase del processo evolutivo, di crescita (pulsioni, emozioni, sentimenti) – è necessario dire che essi, oltre che riguardare un fatto romantico, sono soprattutto una facoltà cognitiva, come già i Greci avevano intuito. Una mamma sa che, nel momento in cui un bambino frigna, ha bisogno di qualcosa. Si parla, in questo caso, di intelligenza emotiva. Le nostre nonne, almeno quando io ero bambino (visto che le nonne di oggi pensano al lifting), ci narravano storie, ancorché truculente, poiché bisognava far conoscere il male, e anche la morte, ai bambini. Ed invece, oggi, spesso i bambini non hanno il senso della realtà perché certo la realtà non viene fatta vedere loro. Ma per vederla, esistono dei mezzi, e tali mezzi sono la letteratura, l’arte, la cultura. Sono questi i luoghi in cui si impara cos’è l’amore, la tragedia, l’ironia, il bene, la bellezza, la giustizia. Ed invece, si riempiono le scuole di sola tecnologia e di solo digitale, e non più di letteratura, di arte.
Peraltro, da numerose indagini emerge che 1-2 ragazzi su 30 leggono, mentre gli altri guardano google o internet, senza trascurare che l’Italia è all’ultimo posto, in Europa, a saper comprendere un testo scritto. La cultura paga anche in termini economici, ma nel nostro Paese si gioca col cellulare, mentre nelle altre nazioni si legge. Oggi, i ragazzi conoscono duecento parole. E con una sola parola, esprimono sentimenti, anche opposti. I giovani – come ho segnalato poc’anzi – sono nel massimo della forza fisica e della capacità ideativa. E cosa fa la società? Li manda a seguire lo stage, introduce l’alternanza scuola/lavoro. Scuola/lavoro? La competenza si deve conquistare all’università. A scuola, si deve diventare uomini.
I giovani, quindi, hanno smesso di dire "noi", si sono rifugiati in quello pseudonimo di se stessi che ripete ossessivamente "io" da pareti strette e da una dimensione sociale che non ha più trovato dove esprimersi: né in chiesa, né a scuola, né nelle sezioni di partito, né sul posto di lavoro, è rimasto solamente quel tratto primitivo o quel cascame che è la "banda".
Solo con gli amici della banda, oggi, molti ragazzi hanno l’impressione di poter dire davvero "noi", e di riconfermarlo nel bullismo che sempre più caratterizza i loro atteggiamenti nella scuola, negli stadi, all’uscita delle discoteche. Lo sfondo è quello della violenza sui più deboli.
E questo perché accade? Perché, oggi, i ragazzi si trovano ad avere un’emotività carica e sovraeccitata che li sposta dove vuole, a loro stessa insaputa, senza che un briciolo di riflessione, cui non sono stati educati, sia in grado di raffreddare l’emozione e non confondere il desiderio con la pratica, anche violenta, per soddisfarlo. L’eccesso emozionale, per un verso, e la mancanza di riflessione, per altro verso, li portano a oscillare tra lo "stordimento dell’apparato emotivo" (attraverso le notti in discoteca o i percorsi della droga) e il "disinteresse per tutto" che sfocia nell’ignavia e nell’indifferenza.
Di fronte a questi ragazzi, i quali inconsciamente avvertono l’incertezza del futuro che li induce ad attardarsi in una sorta di adolescenza infinita, resta soltanto da dire alla famiglia e alla scuola: non interrompete la comunicazione, buona o cattiva che sia, qualunque cosa i ragazzi facciano. A interromperla ci pensano già loro e, come di frequente ci riferisce la cronaca, anche in maniera feroce e distruttiva.
parole di Antonio Calicchio
scatti gentilmente concessi da Licusati nel mondo live