Sei emozionata: i tuoi occhi non lo nascondono e a te non importa. Dopo mesi di attesa, prendi parte - presso il Museo Archeologico Nazionale di Napoli - alla mostra “Canova e l’antico”, che mette in relazione, per la prima volta, opere del noto scultore neoclassico - definito “l’ultimo degli antichi e il primo dei moderni” - con l’arte antica e i modelli partenopei che lo seppero ispirare.
Le tue pupille - umide, educate all’umanità - si dilatano dinanzi a tanta armonia e bellezza. Sai quanto l’uomo contemporaneo, in una società consumistica che ha erroneamente identificato la felicità con il benessere, desideri quella perfezione, quella sacralità resa tangibile dal marmo. Sembra quasi che gli spettatori guardino al candore delle statue del Canova con nostalgico rimpianto: rappresentano una dimensione ormai perduta. Si possono contemplare e destare meraviglia, consentono ai sensi irretiti dal torpore di risvegliarsi con una catarsi, ma - nel contempo - non puoi riconoscerti pienamente in queste rappresentazioni di divinità greche, di personaggi mitologici a cui l’artista, fedele alle idee neoclassicistiche, ha dato volto. L’arte, che Baudelaire definisce un “ardente singhiozzo”, ti consente di intuire l’indicibile, di percepire l’assoluto, ma continua a ricordarti di essere vivo, finito. Non abiti la perfezione e assomigli piuttosto ad un’opera di Lucio Fontana, che squarciava le tele per ricordarti che abbiamo ferite-feritoie da tenere aperte per affacciarci sulla realtà. In questa vulnerabilità ti riconosci pienamente: in te si celano sensibilità e delicatezza, gentilezza estenuata, attese e speranze ferite. Sei fragilità, una delle radici ontologiche dell’esistenza, ma fondamentale premessa a considerare la vita propria e altrui: essa consente l’intuarsi, il trarre il “tu” fuori dai tentacoli del disamore e dell’anonimato, attraverso le pupille volte in direzione di qualcuno, il cui sguardo vivo, educato al desiderio e allo stupore, possa incrociarsi con il proprio, suggellando un cammino che trova incarnazione e testimonianza proprio negli occhi che si hanno davanti.
La stessa festività pasquale, che ti accingi a celebrare, è rivoluzionaria: Dio accetta di farsi carne, dell’umanità accoglie le debolezze e le fa proprie, come mostra la sofferenza sulla croce. L’uomo-Dio, donandosi alla morte con la sua sacralità ferita, ha paura come ognuno di noi: sono queste credenziali di un’estetica nuova, è bellezza misericordiosa; ma, grazie al dolore che esige di essere sentito e al sangue versato, egli fa nuove tutte le cose, ridando vita a quel che è diventato esangue. Allo stesso modo, l’uomo - che non ritrova la sua natura più intima nella perfezione (dal latino “perficio”, “porto a compimento”) delle statue canoviane -, colpito dagli spigoli taglienti della finitudine, dovrebbe vivere le fragilità non come limite, ma come slancio capace di rinnovare la capacità di creazione e di alimentare il desiderio di infinito.
Dopo ore trascorse tra statue e riflessioni, esci dal museo; il vento ti scompiglia i capelli e sei etimologicamente felice: la bellezza che impreziosisce i luoghi, ancora una volta, ti ha permesso di fuggire l’analfabetismo emotivo e di fare il pieno di speranze e volti.
Parole e scatti di Rosanna Caiazzo