STEFANO CUCCHI, IN NOME DEL POPOLO ITALIANO - Emmetag

Dieci gli anni di attesa, dodici quelli di condanna. A distanza di dieci anni dal 22 ottobre 2009 Stefano Cucchi ottiene giustizia. Stefano venne arrestato il 15 ottobre 2009 da carabinieri che avrebbero dovuto accompagnarlo in una caserma ed invece compromisero la sua vita, tanto che dopo una settimana, il 22 ottobre 2009, venne dichiarato deceduto presso il reparto detenuti dell’ospedale Sandro Pertini di Roma. La storia giudiziaria è lunga e complessa, compreso il depistaggio di chi, secondo la Procura, cercò di insabbiare le violenze subite dall’uomo mentre era in custodia dei carabinieri che lo arrestarono. Dopo dieci anni una sentenza della Corte d’Assise di Roma identifica dei colpevoli che sono stati condannati con l’accusa di omicidio preterintenzionale. Si stratta di Alessio di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, condannati nel processo bis che si è aperto dopo le dichiarazioni del carabiniere Francesco Tedesco, che raccontò, dopo anni di silenzio, ciò che successe in quella triste notte del 2009. Dieci anni che hanno lasciato brandelli di verità attesa lungamente dalla famiglia. Al di là dell’aspetto giudiziario, molto rilevante ma che intendiamo lasciare nelle giuste mura dei tribunali italiani, quello che emerge compiutamente sono i volti e le storie di Stefano e Ilaria. Due fratelli che hanno combattuto per dieci lunghi anni senza indugio, senza ostacoli e senza scrupoli, come quando la famiglia decise di mostrare all’opinione pubblica il volto bluastro, ecchimotico e contuso di Stefano. Stefano era un ragazzo fragile (quanti ne conosciamo?); aveva dei problemi e gli stessi famigliari lo raccontano. Stefano era entrato in una comunità di recupero e, con molte difficoltà, stava cercando di superare questa grave tossicodipendenza. È stato arrestato mentre cercava di vendere della droga ad un ragazzo (quanti ne conosciamo?) reato che bisognerebbe punire con pene più gravi, certamente. Stefano era uno di quelli che - come molti hanno sostenuto - “vendeva morte”, ed è per questo bisognava processarlo e, se ritenuto colpevole, condannarlo. Ma prima di tutto Stefano era una persona, un ragazzo di 31 anni che aveva commesso nella sua vita molti errori, ma che non doveva morire, non doveva essere ucciso. Non così. Ho visto il film “Sulla mia pelle” soltanto due volte perché è uno di quei film che non avresti mai voluto vedere. Una cosa è ascoltare quello che successe e quello che subì, mentre cosa diversa è vederlo. C’è un passaggio tristemente evocativo del film dove, forse, si può intuire quello che realmente è accaduto (e forse accade ogni giorno nell’indifferenza di molti e nella violenza di altri che vorrebbero che i condannati “marciscano nelle galere ai lavori forzati”) quando Stefano Cucchi, interpretato eccezionalmente da Alessandro Borghi, all’ennesima domanda dell’infermiera su cosa gli fosse successo, volta le spalle e le risponde che’ nun se vede che m’hanno pestato?. Ecco la terribile indifferenza di una società sempre più egoista e individualista. Che condanna a morte chiunque con un semplice silenzio, con un pavido cinismo. Stefano ormai è morto, e nessuna condanna, nessuna sentenza può riportarlo tra le braccia della madre Rita, donna straordinaria, o del padre Giovanni. Nessuno può consegnare più alla comunità di recupero quel ragazzo che avrebbero dovuto aiutare, perché è lì che Stefano sarebbe dovuto tornare e non invece in un obitorio, colpito al volto e alla schiena da chi avrebbe dovuto proteggerlo. Questa è parte di quella società, che seppur minoritaria va combattuta e condannata. Stefano dunque è morto, ma possiamo comunque tenerlo in vita, sostenendo le lotte per i diritti civili di tutte le persone fragili, di quegli ultimi Stefano, come lo ha definito più volte la sorella. Ilaria Cucchi è l’altro volto che emerge da questa storia violenta. Una donna temprata, tenacemente impegnata ad ottenere giustizia e verità su quanto accaduto a suo fratello. Ilaria è il riflesso di quanto più giusto e bello possa esserci in un paese democratico, in uno stato di diritto dove i diritti di tutti, anche degli ultimi e degli esclusi, vengono garantiti. La sua battaglia di è stata, e continua ad essere, la battaglia dei tanti che non vedono quotidianamente riconosciuti i propri diritti, oppure vengono oppressi dai duri che nascondono le proprie fragilità e i propri crimini dietro una scrivania o dietro una divisa. È stata offesa, maltrattata e oltraggiata anche da esponenti dei diversi governi che si sono succeduti durante questi interminabili dieci anni, e a sentenza emessa nessuno ha colto l’opportunità di rientrare nei ranghi della buona educazione e chiedere scusa a lei e a suo fratello, da tanti definito “drogato” e “tossico”, come se gli uomini possono essere catalogati e ad ognuno spettasse un grado diverso di rispetto e giudizio. Più volte stiamo leggendo l’hashtag #stayhuman (restiamo umani) che dovrebbe invitarci a considerare il prossimo come uomo, come nostro fratello, in una versione più giudaico-cristiana. Questo sentimento dovrebbe accompagnarci in un rapporto evoluto anche verso chi sta attraversando un momento difficile della sua vita, come successo nel caso di Stefano, e a considerare se un uomo può essere liberamente ucciso da uno Stato a cui spesso ci affidiamo proprio nei momenti di difficoltà. Diversamente a cosa dovrebbero servire le carceri se non a proteggerci e a rieducarci qualora dovessimo commettere dei reati? Se invece concepiamo questo in maniera diametralmente opposta, e vediamo nelle carceri lo strumento di castigo e vendetta, occorrerebbero dei mattatoi dove poter arbitrariamente uccidere e massacrare chiunque compia un crimine. Un tempo anche in Italia è esistita la pena di morte (cosa peraltro tremendamente esistente in altre parte del mondo che consideriamo civile e moderno), ma in tempi in cui i lumi della ragione vinsero gli impulsi emotivi delle persone e i sentimenti più oscuri, Cesare Beccaria disse “parmi un assurdo che le leggi che sono l’espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono l’omicidio, ne commettano uno esse medesime, e, per allontanare i cittadini dall’assassinio, ordinino un pubblico assassinio”. Quindi ripartiamo dai nostri valori, dai nostri principi, che è un po’ quello che ha cercato  tenacemente di fare Ilaria, avendo sempre espresso fiducia nella giustizia italiana. Quella giustizia che affida alle aule dei tribunali la verità di un reato e che non abdica al cittadino la facoltà di difendersi armandosi. Lo Stato, il terzo volto che emerge da questa triste storia. Uno Stato che ha il volto principale di quel suo paradigma “La legge è uguale per tutti”, indistintamente tossici o uomini in divisa; che ha il volto degli avvocati che hanno strenuamente cercato la verità ed infine del maresciallo Salvatore Caporaso che china il capo e con un gesto di rispetto e ossequio bacia la mano di Ilaria per dirle che lo Stato siamo noi, uomini e donne che continueranno a difendere i principi di giustizia e uguaglianza. E allora possiamo leggerci la sentenza, e riconoscersi tutti in quelle parole “in nome del popolo italiano”, perché questa sentenza era realmente attesa da tutto il popolo italiano, un popolo che si difende dietro ad una toga e non armandosi con un fucile. Perché il nostro è uno Stato di diritto, e dobbiamo ricordarcelo quando qualcuno cerca di trasformarci in un far west.

parole di Giangaetano Petrillo

scatto tratto dal web raffigurante la locandina del film Sulla mia pelle